Intervista al card. Cláudio Hummes. Verso il Sinodo sull'Amazzonia

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Cardeal Hummes relator geral do Sínodo Foto: CNBB

Presentiamo l'intervista del P. Antonio Spadaro S.J. al Cardinale Hummes su Civiltà Cattolica. 

 

Il 15 ottobre 2017, papa Francesco ha convocato a Roma un Sinodo Speciale per la regione panamazzonica, indicando come principale obiettivo quello di «trovare nuove vie per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio, in particolare le persone indigene, spesso dimenticate e senza la prospettiva di un futuro sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di fondamentale importanza per il nostro pianeta». L’8 giugno 2018 ne è stato pubblicato il Documento preparatorio[1].

Il Sinodo dell’Amazzonia è un grande progetto ecclesiale, che cerca di superare i confini e ridefinire le linee pastorali, adattandole ai tempi contemporanei. La Panamazzonia è un territorio composto da regioni che fanno parte di Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana e Guyana francese. Essa è una fonte importante di ossigeno per tutta la terra, perché vi si trova più di un terzo delle riserve forestali primarie del mondo. È una delle più grandi aree di biodiversità del Pianeta.

Al Sinodo intervengono vescovi scelti da diverse regioni del mondo, compresi tutti i vescovi della regione amazzonica. Il Pontefice ha nominato Relatore generale del Sinodo il cardinale francescano brasiliano Cláudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo. Altra figura di grande rilievo è il cardinale gesuita peruviano Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo. Essi sono rispettivamente presidente e vicepresidente della «Rete Ecclesiale Panamazzonica» (Repam).

Questa rete transnazionale si propone di creare una collaborazione armoniosa fra le varie componenti della Chiesa: Circoscrizioni ecclesiastiche, Congregazioni religiose, Caritas, varie associazioni o Fondazioni cattoliche e gruppi di laici. Tra i suoi obiettivi principali è la difesa della vita delle comunità amazzoniche minacciate dall’inquinamento, dal radicale e rapido cambiamento dell’ecosistema dal quale dipendono, e dalla mancata tutela di fondamentali diritti umani.

Il 31 ottobre 2006 il card. Hummes fu nominato da papa Benedetto XVI prefetto della Congregazione per il Clero. Nel maggio 2007 partecipò alla V Conferenza episcopale latinoamericana ad Aparecida come membro designato dal Papa. Oggi è presidente della Commissione per l’Amazzonia della Conferenza episcopale del Brasile.

Considerando la sua esperienza e la sua attività, abbiamo deciso di avere con lui una conversazione che possa introdurre ai lavori del Sinodo e al suo significato[2].

 

Eminenza, ci avviciniamo al Sinodo sull’Amazzonia, un grande evento ecclesiale che mette al centro della riflessione un’area specifica e particolare del mondo, sebbene ampia e di incredibile ricchezza e complessità. Proprio per questo qualcuno teme che il prossimo Sinodo possa avere ripercussioni sull’unità nella Chiesa. Che ne pensa?

Oggi si parla molto dell’unità della Chiesa. È fondamentale, importantissima. Però, deve intendersi come unità che accoglie la diversità, secondo il modello della Santissima Trinità. Cioè, è altrettanto necessario evidenziare che l’unità non può mai distruggere la diversità. Il Sinodo, in concreto, accentua la diversità all’interno di quella grande unità. La diversità è la ricchezza dell’unità, la preserva dal farsi uniformità, dal fornire giustificazioni al controllo.

La diversità è dunque importante per la Chiesa?

Oggi più che mai la Chiesa si è aperta alla diversità. I Paesi latinoamericani della Panamazzonia sono un’espressione della diversità latinoamericana, che dev’essere accolta senza remore e con grande apertura dalla Chiesa d’Europa e di tutto il mondo. Mi sento di sottolinearlo, perché il Sinodo dell’Amazzonia è un riconoscimento della nostra peculiarità. La vedo in questo modo: la Chiesa dell’America Latina può apportare nuove luci alla Chiesa europea e del mondo, così come la Chiesa d’Europa deve darci luci antiche, molto importanti.

Inizialmente il cristianesimo ha incontrato un luogo di inculturazione nella cultura europea, con un processo molto felice che dura fino a oggi. Ma quell’unica inculturazione non basta. Il Papa afferma che una sola cultura non può esaurire la ricchezza del Vangelo. La Chiesa non vuole dominare sulle altre culture, pur rispettando quell’iniziale inculturazione europea.

Dobbiamo apprezzare la diversità delle culture: alla Chiesa ne verrà un arricchimento, non una minaccia. La diversità non attenta all’unità della Chiesa, ma la rafforza. È molto importante non avere paura di queste cose. Quindi, se parliamo fra noi e riusciamo a trovare nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia, ciò andrà a beneficio di tutta la Chiesa. Ma sempre a partire della riflessione specifica sull’Amazzonia.

Voi della «Rete Ecclesiale Panamazzonica» avete avuto un incontro con papa Francesco. Può dirci qualcosa su quell’incontro e sulle novità, le sfide e le speranze che il Santo Padre ripone nel processo sinodale?

Il 25 febbraio scorso, il card. Pedro Barreto, Mauricio López, che è segretario esecutivo della Repam, e io abbiamo incontrato il Papa. Gli abbiamo riferito sul processo di preparazione del Sinodo una volta conclusa la fase di ascolto e di consultazione delle Chiese particolari della Panamazzonia, e su tutto il lavoro svolto fin qui. In questo processo sinodale, la nostra rete ha davvero cercato di «ascoltare», e non soltanto di «vedere, giudicare, agire». L’ascolto viene prima di tutto. Per preparare un Sinodo bisogna ascoltare, non solamente organizzare e fare piani.

Il Sinodo si caratterizza dunque per la sua capacità di ascolto e di superare la mentalità dei «quadri» e dei «piani»?
Per «vedere» davvero, bisogna ascoltare: non bastano le analisi su ciò che è l’Amazzonia, o su chi è e che cosa fa la Chiesa in Amazzonia. Il Sinodo non è un’astrazione sinodale, un’idea generica. Per noi è necessario ascoltare in primo luogo proprio i popoli dell’Amazzonia. Va ascoltata la realtà, vanno ascoltate le grida. Questo sforzo ha molto arricchito, a livello metodologico, il nostro vedere, giudicare e agire. Il nostro «vedere» non è stato lo sguardo dell’analista che esamina la situazione con distacco. Ci siamo messi ad ascoltare per davvero.

E il vostro colloquio con il Papa?

Abbiamo domandato al Papa se avesse qualche cosa da raccomandarci. Ci ha risposto che in primo luogo non bisogna annacquare l’obiettivo specifico del Sinodo. Questo non deve diventare l’occasione per discutere di tutto, secondo quell’antico detto latino che con ironia afferma: De omni re scibili et quibusdam aliis. Il Sinodo, dice il Papa, non ha l’obiettivo di trattare ogni argomento, ogni sfida e ogni necessità della Chiesa mondiale: non dobbiamo perdere di vista il suo scopo concreto. È ovvio che il suo intero processo ha e avrà anche una ripercussione universale, planetaria, ma il Sinodo ha un obiettivo che va perseguito per non restare nel generico. Papa Francesco su questo punto è stato molto chiaro: non perdete di vista l’obiettivo. Che è l’Amazzonia. «Nuovi cammini per la Chiesa» significa nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e nuovi cammini per un’ecologia integrale in Amazzonia. Questo tema delimita lo scopo del Sinodo.

Francesco parla spesso di processi nuovi, di camminare, di non fermarsi a ripetere il passato, ma di aderire a quella tradizione che cresce e fa crescere senza dover ripetere sempre le stesse cose. Ci riuscirete? È possibile?

Non andremo certo al Sinodo per ripetere quello che è stato già detto, per quanto importante, bello e teologicamente significativo! Non c’è bisogno di un Sinodo per dire il già detto. Il Sinodo serve per individuare nuovi cammini quando se ne avverte la necessità. Abbiamo un grande bisogno di nuovi cammini, di non temere la novità, di non ostacolarla, di non fare resistenza. Dobbiamo evitare di portarci appresso ciò che è vecchio, come se fosse più importante di ciò che è nuovo. Vecchio e nuovo devono coniugarsi, la novità deve rafforzare e incoraggiare il cammino. L’affermazione del Pontefice è molto forte: dobbiamo camminare e andare avanti, senza opporre resistenza.

Papa Francesco ci ha detto che dobbiamo avere fiducia nello Spirito, che ci fa procedere. Lui, fin dall’inizio del pontificato, ha esortato e incoraggiato la Chiesa ad alzarsi e a non restarsene statica e troppo sicura della sua teologia, della sua visione delle cose, in un atteggiamento di difesa. Il passato non è pietrificato, deve fare sempre parte della storia, di una tradizione che si muove verso il futuro. Ogni generazione deve continuare ad avanzare per contribuire alla ricchezza di questa grande tradizione. Ce la faremo? Ci affideremo al lavoro dello Spirito.

Il passato è segnato anche da una eredità coloniale…

Certamente. E l’atteggiamento coloniale è stato pure una delle recriminazioni più significative dei popoli indigeni verso certe comunità pentecostali protestanti che sono entrate, e stanno ancora entrando, nel territorio.

Il Papa denuncia ogni forma di neocolonialismo ed esorta la Chiesa a non viverne lo spirito e la pratica nella sua missione evangelizzatrice. Quello del Papa è un richiamo a non fare della Chiesa in Amazzonia una colonizzatrice, a non proporsi di colonizzare i popoli indigeni riguardo alla loro fede, alla loro spiritualità e alla loro esperienza di Dio.

Come si pone allora la Chiesa davanti alle popolazioni indigene? Come intendere l’evangelizzazione di questi popoli?

L’inculturazione della fede e anche il dialogo interreligioso sono necessari a partire dal fatto indubbio che Dio è sempre stato presente anche nei popoli indigeni originari, nelle loro specifiche forme ed espressioni e nella loro storia. Essi già posseggono una propria esperienza di Dio, così come altri antichi popoli del mondo, in particolare quelli dell’Antico Testamento. Tutti hanno avuto una storia in cui c’era Dio, una bella esperienza della divinità, della trascendenza e di una conseguente spiritualità. Noi cristiani crediamo che Gesù Cristo sia la vera salvezza e la rivelazione definitiva che deve illuminare tutti gli uomini. L’evangelizzazione dei popoli indigeni deve mirare a suscitare una Chiesa indigena per le comunità indigene: nella misura in cui accolgono Gesù Cristo, esse devono poter esprimere quella loro fede tramite la loro cultura, identità, storia e spiritualità.

Quali resistenze sta generando questa visione della Chiesa indigena nei vari spazi e nel percorso verso il Sinodo?

Sta generando resistenze e malintesi. Alcuni se ne sentono in qualche modo minacciati, perché ritengono che non verranno rispettati i loro progetti e le loro ideologie. Soprattutto, direi, quei progetti di colonizzazione dell’Amazzonia animati a tutt’oggi da uno spirito di dominio e di rapina: venire a sfruttare, per poi andarsene con le valigie piene, lasciandosi dietro la degradazione e la povertà della gente del posto, che si ritrova immiserita e con il proprio territorio devastato e contaminato.

L’industria, l’agricoltura e molte altre forme di produzione dicono sempre più spesso che la loro attività è «sostenibile». Ma che significa davvero «essere sostenibile»? Significa che tutto quanto estraiamo dal suolo o restituiamo al suolo come residuo non deve impedire alla terra di rigenerarsi e di restare fertile e salubre.

È molto importante riconoscere queste resistenze sia nella Chiesa sia al suo esterno, per esempio nei governi, nelle imprese e dappertutto. Dobbiamo discernere come comportarci davanti a queste opposizioni, sapere che fare.

Perché queste resistenze? Da che cosa sono prodotte?

Gli interessi economici e il paradigma tecnocratico avversano qualsiasi tentativo di cambiamento e sono pronti a imporsi con la forza, violando i diritti fondamentali delle popolazioni nel territorio e le norme per la sostenibilità e la tutela dell’Amazzonia. Ma noi non dobbiamo arrenderci. Sarà necessario indignarsi. Non in modo violento, ma certamente in maniera decisa e profetica.

Sarà possibile un dialogo, un incontro?

Non possiamo cadere nel pensiero ingenuo secondo cui tutti sono disposti a dialogare: non è vero! Ci sono molte persone che non sono affatto disponibili a farlo. Prima dobbiamo indignarci, profetizzare, ma poi dobbiamo certamente negoziare, trattare, accordarci, e così forse otterremo che la controparte si prepari a dialogare. Gesù stesso ci ha invitati a negoziare in situazioni del genere, dicendo: «Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine?» (Lc 14,28). La Chiesa in Amazzonia sa bene di dover essere profetica, non accomodante, perché la situazione è clamorosa e mostra una costante e persistente violazione dei diritti umani e una degradazione della casa comune. E, peggio ancora, questi crimini per lo più restano impuniti.

La Chiesa dev’essere profetica. Noi, in America Latina, l’abbiamo sperimentato ampiamente dopo il Concilio Vaticano II, Medellín e le altre grandi Conferenze dell’episcopato latinoamericano. Questo profetismo è cresciuto, ma si è anche progressivamente chiarito.

Che vuol dire essere profetici?

Non è soltanto gridare, denunciare e additare. Il profetismo è molto di più. Forse potremmo arricchire questo spirito di denuncia e di dialogo con un po’ più di tenerezza. Come riuscirci? Il profetismo deve proseguire, ma deve mirare anche a nuovi cammini, capaci di illuminare, di aiutare l’altro ad accettare un dialogo. Credo che nell’incontro dialogico saremo capaci di ascoltare, di comprenderci, di disporci a ricevere la luce del Vangelo di Gesù Cristo.

Qualcuno contrappone inculturazione, cioè l’immersione nella cultura, e interculturalità, il dialogo tra le culture: temi molto presenti nelle espressioni di una Chiesa che cerca il contatto con gli indigeni della Panamazzonia. Che cosa ne pensa e come si può inserire questo argomento nel processo sinodale in modo creativo e costruttivo?

Inculturazione e interculturalità non si contrappongono. Non dobbiamo pensarle così. Le due cose vanno coniugate. L’inculturazione è assolutamente necessaria, e lo è altrettanto l’interculturalità, soprattutto perché in Amazzonia ci sono tante culture. L’inculturazione e l’interculturalità sono molto importanti, se guardiamo alla quantità di popoli indigeni che ci sono al mondo e in Amazzonia.

E la questione di come debba porsi la Chiesa verso gli indigeni?

Dobbiamo distinguere tra Chiesa «indigenista» e Chiesa «indigena». Noi, soprattutto sulla scorta delle grandi Conferenze dell’episcopato latinoamericano, oggi cerchiamo di essere una Chiesa indigenista, che considera gli indigeni come oggetto di pastorale, ma non ancora protagonisti della propria esperienza di fede. Ma questo non basta: bisogna puntare a una Chiesa indigena.

Da quel che mi è sembrato di capire, il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) brasiliano sta facendo un buon lavoro.

Certamente il Cimi è un esempio luminoso e svolge un lavoro straordinario: ci fornisce dati, ci propone fatti, pubblica eventi di violenza che sono avvenuti, avvalendosi di numeri, di statistiche. I dati sono innegabili: si possono interpretare male o bene, ma non negare. Vengono messi in evidenza i dati sull’ingiustizia, sulla violazione dei diritti umani, sugli assassinii, sulla criminalizzazione dei difensori dei diritti. E il Cimi svolge questo compito con costante vigilanza. Ciò mette in imbarazzo qualche governo e tutti coloro che hanno altri interessi.

In quel caso la Chiesa indigenista trova espressione in una maniera che può risultare scomoda. Ma conferma che tanto più per noi, come Chiesa, è importante avere dati da presentare, essere in grado di mostrare perché siamo indignati. Il Cimi in Brasile ci ha aiutato molto a essere una Chiesa indigenista, che difende i diritti degli indigeni; e non soltanto degli indigeni, ma di tutti i popoli, soprattutto nei luoghi di missione.

Ci sentiamo chiamati a essere una Chiesa che difende i diritti umani, che difende i diritti indigeni, quelli dei ribeirinhos, le popolazioni rivieresche, e di altri. Una Chiesa indigenista è così.

E qual è invece il passo da fare per una Chiesa «indigena»?

Adesso sappiamo che c’è un altro passo da compiere: dobbiamo promuovere una Chiesa indigena per i popoli indigeni, aiutare a far nascere e crescere una Chiesa indigena. Le comunità aborigene che sentono l’annuncio del Vangelo in un modo o nell’altro, e che lo accolgono, cioè accolgono Gesù Cristo, devono essere in condizione di far sì che, tramite un opportuno processo, la loro fede possa incarnarsi e inculturarsi nella loro realtà tradizionale. Allora, nel contesto della loro cultura, identità, storia e spiritualità, può nascere una Chiesa indigena con i propri pastori e ministri ordinati, sempre unita, in totale comunione con la Chiesa cattolica universale, ma inculturata nelle culture indigene.

Di fatto, nella storia dei popoli indigeni ci sono già molte tracce di Dio. Dio, come già dicevo, è sempre stato presente nella loro storia. Dalla loro identità, dalla loro storia, dalla loro cultura essi possono trarre quei segni chiari della presenza di Dio. Quei popoli millenari vengono da una radice diversa rispetto a quella europea, da un altro ceppo storico, come pure gli africani, i popoli dell’India, i cinesi. Pertanto, all’interno della loro storia, della loro identità, della loro spiritualità, a partire dalla loro relazione con la trascendenza, dobbiamo generare una Chiesa dal volto indigeno.

Il tema di una Chiesa indigena è molto importante per la Panamazzonia, ma quale tipo di ministero è necessario per questa realtà? Quali profili di sacerdoti, missionari e via dicendo sono necessari in questa situazione, in queste culture dai lineamenti tanto particolari che ha descritto?

Tante volte ci preoccupiamo dell’eventualità di trapiantare i modelli dei sacerdoti europei nei sacerdoti indigeni. Ma qualcuno, a ragione, ha fatto notare che si attribuisce troppa importanza e prio­rità al profilo del ministro ordinato, anteponendolo alla comunità che deve riceverlo. Dev’essere il contrario: la comunità non è per il suo ministro, ma è il ministro per la sua comunità. Egli dev’essere adeguato ai bisogni della comunità.

Questo bisogno della comunità, forse, dovrà spingerci a pensare a ministeri differenziati a partire dal fatto che una certa comunità, in un posto specifico, ha bisogno di una presenza adeguata. Non mettiamoci a difendere una sorta di figura storica a cui un ministro deve attenersi, senza possibili variazioni, in modo che le comunità debbano accettarlo e tenerselo perché è così che noi glielo inviamo.

Sì, i ministri sono inviati, ma dobbiamo saper inviare, in modo da rispettare quella concreta comunità che ha necessità proprie e specifiche. Anche i ministeri vanno pensati a partire dalla comunità: dalla sua cultura, dalla sua storia e dalle sue necessità. L’apertura significa questo.

La Chiesa indigena non si fa per decreto. Il Sinodo deve aprire la strada affinché sia possibile provocare un processo che abbia la sufficiente libertà e che riconosca la dignità propria di ogni cristiano e di ogni figlio di Dio. Ecco la grandezza di questo Sinodo. Il Papa sa quanto possa risultare storico per tutta la Chiesa. Ma la strada da seguire ci esorta a badare che non si riproduca e non si ripeta l’esistente.

Nell’enciclica «Laudato si’» il Papa afferma con chiarezza che la situazione odierna di crisi planetaria è innegabile. E inserisce questo tema nel futuro Sinodo con un richiamo a una «ecologia integrale». Come camminare, in quanto Chiesa, in questa situazione di grave crisi ecologica?

L’ecologia integrale è una realtà meravigliosamente nuova che il Papa ci ha messo davanti. Interpella a fondo gli attuali modelli di sviluppo e di produzione che, a loro volta, fanno appello alle luci razionali, scientifiche e tecnologiche dell’epoca moderna, in cui affonda il paradigma tecnocratico e che non sono disposte ad accogliere le conseguenze di un’ecologia integrale. Il paradigma tecnocratico e di dominazione vince, si impone e fa quel che gli pare.

Questo schema, o questo paradigma tecnocratico, viene in effetti dalla modernità. È il risultato della cosiddetta «rivoluzione copernicana» della filosofia moderna: l’oggetto non è più quello che viene pensato e analizzato, come era nella filosofia classica, ma piuttosto il soggetto pensante, la soggettività. È stato un grande passo in avanti: di fatto, la grande ricchezza della modernità.

Ma i grandi interessi in gioco hanno trasformato questa conquista in qualcosa di diverso. L’hanno mutata in soggettivismo, in individualismo e poi in liberalismo, che, oltre alla rivoluzione copernicana della filosofia, ha potuto avvalersi della nascita della scienza esatta moderna e della sua applicazione alla tecnica. Ne è derivato un enorme progresso tecnologico, sempre più sofisticato, che ha messo nelle mani dell’uomo uno straordinario potere di intervento sulla natura. Lo ha reso capace di produrre sempre più beni, a qualsiasi costo, a scapito sia della natura stessa sia delle persone o delle comunità umane. Questa tecnologia sempre più sofisticata viene utilizzata per sfruttare il Pianeta; viene applicata come se noi venissimo da altrove, da fuori, e il Pianeta fosse qualcosa che abbiamo trovato per strada e possiamo sfruttare, degradare e depredare senza farci scrupoli. La tecnologia dà all’uomo odierno questa possibilità di accumulare sempre più beni materiali. I popoli indigeni, al contrario, non accumulano beni, bensì relazioni sociali, con le persone e con l’universo; non ammassano beni materiali. Ci insegnano che sono molto più importanti le relazioni umane, le relazioni comunitarie.

Questo paradigma tecnocratico di cui parla incombe come una grave minaccia per il nostro Pianeta…

Lo è perché non accetta una ecologia integrale, non accetta che siamo figli di questa terra. Viene vissuto come se l’uomo fosse arrivato qui e avesse trovato un tesoro da sfruttare in tutti i modi possibili. Ma invece no, noi siamo figli di questa terra e, se danneggiamo la terra, finiamo per fare male a noi stessi.

La Bibbia dice che Dio ha formato l’uomo dal fango della terra…

E questo ci fa sapere che nasciamo dalla terra, perciò è la «madre» terra, siamo figli della terra; nasciamo qui, non veniamo da fuori. Il nostro corpo è fatto delle cose della terra. Dio ha soffiato lo spirito, lo spirito della vita, in questo corpo che viene dalla terra. Poiché veniamo dalla terra, siamo fratelli di tutte le creature. E il Papa dice anche che noi uomini, in quanto dotati di intelligenza e di volontà libera, abbiamo uno specialissimo dovere di prenderci cura della terra, perché Dio ci ha dato l’intelligenza e la capacità di amare, di accudire, di amministrare bene la terra che ci dà sostentamento. Ma non possiamo procurarci questo sostentamento a costo degli altri esseri creati e degli altri fratelli e sorelle. È tutto connesso.

L’ecologia integrale ha un fondamento teologico? C’è una visione teologica che lei ha maturato?

Papa Francesco ne ha parlato. La dimensione più importante dell’ecologia integrale, ha detto, è che anche Dio si è messo in relazione definitiva con questa terra in Gesù Cristo. Poiché Dio è in relazione, tutto è interconnesso. Dio stesso si è legato attraverso l’incarnazione di Gesù Cristo, e Gesù è il punto culminante verso cui tutti camminiamo. Ci sono testi splendidi in cui si dice che quella è la meta verso cui avanzano tutte le creature, perché esse non sono state fatte per noi. Il loro fine ultimo non siamo noi: il loro fine ultimo è trascendente, è Dio. Certo, a nostra volta abbiamo bisogno delle creature per sostenerci, ma la loro vocazione è trascendente, e noi, nel loro nome, dobbiamo lodare il Signore e condurle verso Dio. Infatti tutte loro, un giorno, in un modo misterioso, nella logica della risurrezione, prenderanno parte al Regno definitivo. Dio non distruggerà la sua creazione, ma la trasformerà in senso pasquale.

Dunque, Gesù Cristo risorto è la vetta verso cui tutto cammina, ed è il modello che dà una prima rivelazione su come sarà quel cammino che stiamo percorrendo. L’umanità non si muove in tondo, senza orientamento, senza senso. Dobbiamo camminare. C’è un futuro reale. Gesù Cristo risorto è il grande punto trascendente verso il quale camminiamo. Quindi l’ecologia integrale è l’unione di tutto questo.

Perciò dico spesso che bisognerebbe riscrivere la cristologia: già san Paolo parla di questo punto culminante in un cammino che avanza. Teilhard de Chardin a sua volta ne ha parlato nei suoi studi sull’evoluzione. Tutta la teologia e la cristologia, come pure la teologia dei sacramenti, vanno rilette a partire da questa grande luce per cui «tutto è interconnesso», interrelato.

C’è una canzone brasiliana che dice: «Tudo está interligado, como se fóssemos um, tudo está interligado nesta casa comum» («Tutto è interconnesso, come fossimo una cosa sola, tutto è interconnesso in questa casa comune»). Dio stesso è in relazione, definitivamente, con la nostra casa comune. Credo che il concetto di ecologia integrale illumini tutto il lavoro che dobbiamo fare nell’Amazzonia per essere uniti nel cammino del Sinodo.

La «Rete Ecclesiale Panamazzonica» fa parte del processo di preparazione al Sinodo. Da dove nasce?

La Rete è nata dall’idea della V Conferenza episcopale latinoamericana ad Aparecida, a cui prese parte il nostro caro papa Benedetto XVI. All’epoca quel Pontefice diede un notevolissimo contributo fin dall’inizio, con un’apertura che sorprese tutti noi: la grande apertura di Benedetto XVI davanti a un mondo che non era il suo. Lui apparteneva a un mondo europeo, ma si apriva al dialogo insieme a noi, al popolo, al territorio, all’America Latina.

Che cosa accadde ad Aparecida? Il card. Bergoglio, come ben sappiamo, era lì…

Sì, partecipava anche il card. Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires[3]. In quel contesto si parlò della necessità di creare un piano pastorale congiunto per l’Amazzonia, e papa Francesco afferma che è stato lì che lui stesso si è sensibilizzato alla sfida per l’Amazzonia. Prima, in quanto arcivescovo e cittadino di Buenos Aires, l’Amazzonia era per lui una realtà molto distante. Come un mondo fantastico. Ma egli dice che è stato per l’insistenza dei vescovi brasiliani ad Aparecida sulle questioni dell’Amazzonia che gli si è risvegliato questo interesse. Fu lì che comprese che quella era una questione importante. Afferma che a partire da quel momento, di fatto, cominciò a interessarsi a tutta la realtà dell’Amazzonia. Ed è stato allora, come ho detto, che si è parlato della necessità di un piano pastorale congiunto di tutta l’America Latina per l’Amazzonia. Era una cosa un po’ fuori dal comune, perché le Conferenze episcopali sono nazionali, e invece l’Amazzonia non è una nazione, è una regione transnazionale che comprende nove Paesi.

Come avete creato una relazione efficace?

Prima, le Conferenze episcopali nazionali sul territorio amazzonico includevano la loro rispettiva parte di Amazzonia nel piano pastorale nazionale. Adesso, dopo Aparecida e soprattutto dopo l’annunzio del Sinodo per l’Amazzonia, bisogna pensare a un piano pastorale specifico per tutta la Panamazzonia. Tuttavia, ciò non toglie alle rispettive Conferenze nazionali la loro responsabilità per il loro territorio amazzonico. Si crea quindi una nuova situazione, una specie di nuovo soggetto ecclesiale, ed è necessario riuscire a comprenderlo e ad accoglierlo a poco a poco. Il Papa parla di un decentramento, e ogni decentramento è un po’ doloroso, perché intacca un po’ il potere e il prestigio del centro; dobbiamo riuscire a comprenderlo, a camminare insieme in questa direzione.

La Repam si propone per l’appunto di rendere un servizio che comincia a creare una rete fra tutte le realtà dei nove Paesi amazzonici. Una rete che non va intesa come un’unità ulteriore con progetti propri, bensì è un servizio per articolare tutte le entità, comunità, missionari, agenti ecclesiali sul territorio, persone e iniziative di difesa e di tutela dell’Amazzonia, affinché tutti entrino in questa rete e non si sentano isolati, perduti nella foresta. È un servizio che dipenderà sempre dai vescovi e dai missionari locali, che hanno bisogno di sentirsi coinvolti in questa Rete.

E il Papa? Quando le ha parlato del Sinodo?

Già nel 2015 il Papa cominciava a dirmi: «Sto pensando di fare una riunione con tutti i vescovi dell’Amazzonia. Ancora non so che tipo di riunione o di assemblea, ma pensavo che potrebbe anche essere un Sinodo». Mi ha detto: «Preghiamoci insieme», e ha cominciato a parlare con vescovi, con le Conferenze episcopali dei Paesi amazzonici, su come fare questa assemblea, e così in lui è andata crescendo e maturando l’idea del Sinodo, finché infine esso è stato convocato nel 2017. Abbiamo lavorato molto per il Sinodo, e continueremo a farlo in questo servizio così importante per il futuro della Chiesa. Il Sinodo serve a trovare e tracciare nuovi cammini per la Chiesa.

 

[1] Il testo del Documento preparatorio, insieme ad altri materiali, si trova sul sito www.sinodoamazonico.va
[2] Sul Sinodo amazzonico cfr A. Peraza, «Amazzonia e diritti umani», in Civ. Catt. 2019 I 45-58.
[3] Cfr D. Fares, «A 10 anni da Aparecida. Alle fonti del pontificato di Francesco», in Civ. Catt.2017 II 338-352.

 

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