Chiesa de Volti. Articolo di Michele Giulio Masciarelli

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SinodoAmazonico (1)

La “carta di identità” della Chiesa amazzonica

Una Chiesa creativa e originale. Sempre con l’occhio credente sull’Instrumentum laboris del sinodo sull’Amazzonia, ci soffermiamo su un tema senza meno centrale, che è quello della Chiesa (105-126). Ci aiuterà a svolgere questo tema dire in premessa che il dinamismo più innovativo del documento è proprio quello ecclesiologico. Infatti, a differenza dei precedenti sinodi speciali (a esempio quelli dedicati ai cinque continenti, al Medio oriente), più che sulla base della storia si basa su quella della realtà ambientale e di un soggetto ecclesiale che, pur riferendosi necessariamente alla sua lunga radice storica, è pensata maggiormente in avanti, verso il futuro. E qual è una simile Chiesa? È presto detto: è proprio una Chiesa equilibratamente memore e coraggiosa per intraprendere «nuovi cammini» (Instrumentum laboris, passim). Per essere adatta ai nuovi orizzonti la Chiesa deve deporre ogni grandezza che la rende schiava del passato e impaurita del futuro (Ernesto Balducci, Verso una nuova immagine della Chiesa, Cinisello Balsamo, 2018, passim).

Una Chiesa coraggiosa perché memore. La Chiesa in Amazzonia tanto ama la profezia quanto ama il grande passato della rivelazione cristiana. Essa sa che «deve fare memoria dei passi compiuti per rispondere ai temi impegnativi della centralità del kerygma e della missione nell’area amazzonica. Questo paradigma di azione ecclesiale ispira i ministeri, la catechesi, la liturgia e la pastorale sociale tanto nell’area rurale quanto in quella urbana» (Instrumentum laboris, 105). La scelta di ricentrare l’evangelizzazione del kerygma è anzitutto cosa di grande sapienza teologica, poiché nel suo stretto nucleo c’è tutta la verità cristiana e il contenuto di ogni vera speranza; ma essa è anche coraggiosa, perché puntare sul kerygma nella missione implica una gigantesca fede poiché significa fidarsi ad anima nuda della pura Parola e anzitutto sulla signoria di Dio, arretrando su tutto quello che, come Chiesa e talora in un modo troppo umano, si pensa e si organizza nell’opera missionaria. Questa scelta, peraltro, impedisce anche alla Chiesa di misurare la sua speranza soltanto e anzitutto sulle attese terrestri dell’uomo senza la credente apertura, in alto, alla trascendenza di Dio e, in avanti, al futuro ultimo. Ponendo tali promesse, la Chiesa d’Amazzonia è al massimo motivata a intraprendere nuovi cammini missionari e pastorali che richiedono di «rilanciare con fedeltà e audacia» la sua missione sul territorio e approfondire il processo di inculturazione e l’interculturalità che esige da lei proposte «coraggiose», il che presuppone audacia e passione (cfr. 106).

Una Chiesa che fa della profezia la sua forma

Una parola fa certamente da sfondo alla vita di qualunque Chiesa: è la profezia che offre i fili forti e lievi per intessere anche la figura amazzonica della Chiesa. Perciò l’Instrumentum laboris inizia con la nota esclamazione biblica: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!» (Numeri, 11, 29). Il richiamo alla profezia non è nuovo quando si parla della Chiesa e, per solito, esprime tanti significati, alcuni di sempre e validi, altri equivoci e inaccettabili, altri buoni e promettenti. In concreto, che cos’è una Chiesa profetica? Che cosa si può evangelicamente accettare con questa affermazione? Per essere adatta ai nuovi orizzonti la Chiesa deve deporre ogni grandezza che la rende schiava del passato e impaurita del futuro (cfr. Ernesto Balducci, La Chiesa. Comunità profetica nel mondo e nella storia, Milano, 2019, passim).

La profeticità della Chiesa è la sua qualificazione di speranza, che non è una virtù ecclesiale generica, ma articolata. La Chiesa d’Amazzonia salverà la sua profeticità se si ispirerà ai profeti biblici, i quali hanno parlato a nome di un Altro — Dio — che ha loro imposto i temi da annunciare (le promesse del suo amore fedele, della difesa, della liberazione, del riscatto e di un futuro di luce), fra i quali non mancavano i temi del peccato, della penitenza, della conversione, del ritorno a lui. L’attenzione alta che il prossimo sinodo vorrà certamente avere, aiutata dalla parola-madre che domina nell’Instrumentum laboris (l’integralità), è quella di saper rendere conto sia della complessità ambientale della Terra amazzonica, sia della pienezza del paradigma salvifico a ogni livello: biblico, teologico, spirituale, etico, pastorale.

Una Chiesa e la direzione del suo cammino profetico

La Chiesa amazzonica, complessa anche per i molteplici intrecci che l’attraversano fra risorse e limiti, fra dolori e gioie, fra speranze e disperanze, deve conquistare le connotazioni di una vera escatologia che ha un suo evidente segno di riconoscimento nello scrutare i segni dei tempi. In tal modo essa aiuterà le nuove generazioni a interagire con il senso della vita. Infatti, la Chiesa è chiamata a seguire il Signore, continuando la sua opera missionaria in cinque direzioni che portano tutte alla soglia ultima: 1) rendere testimonianza alla verità che nulla escluda dal suo seno e in esso comprenda Dio e l’uomo, tutto il divino e tutto l’umano (anche la realtà cosmica, terrena, materiale; 2) aiutare tutti e sempre a realizzare il bene; 3) servire e non essere servito (cfr. Gaudium et spes, n. 3); 4) vedere le cose senza unilateralità, ma sempre con sguardo prospettico; 5) guardare le cose con bontà, credendo alla “scienza del miracolo”: sono sempre possibili irruzioni salvifiche speciali di Dio nella storia degli uomini. Il nome di sintesi di questo cammino missionario è una speranza dalle larghe ali, come san Paolo VI fa intravedere nella lettera enciclica Ecclesiam suam al n. 52, dove riformula per la Chiesa (applicabile, perciò, alla vita e alle sorti della Chiesa amazzonica), una grande idea di speranza, ispirata al sentire fiducioso di san Giovanni XXIII, il quale mise in circolo questo forte sentire credente: Cristo volge in salvezza le vicende della storia umana.

Una Chiesa di volti

All’ombra luminosa del volto di Dio. La Chiesa d’Amazzonia si presenta al sinodo col desiderio e la volontà di mostrarsi come una Chiesa di volti (cfr. Instrumentum laboris, 107-117), all’ombra e alla luce del volto di Dio: lei, vuole essere una Chiesa di volti perché è creatura e figlia di un Dio di volti (cfr. Carmine Di Sante, Dio e i suoi volti. Per una nuova teologia biblica, Cinisello Balsamo, 2014). In verità, non è scontato che il Dio biblico sia da considerare subito come un Dio di volti, dal momento che egli è presentato anzitutto come il Dio della parola. Mosè si avvicina al roveto «per vedere» (Esodo, 3, 4), ma finisce per ascoltare: la rivelazione si presenta come epifania della voce, ossia come «epifonia» (Claude Vigée, La faille du regarde, Paris, 2001). Tuttavia, sebbene filtrato dalla nube umbratile, ha un volto. «Significativamente, nella Bibbia, uno dei simboli più ricorrenti di Dio è la nube, luminosa e oscura, che rivela e nasconde. Ebbene, da un lato, la nube fa vedere il volto del Dio che si manifesta per accompagnare gli uomini nel loro cammino [cfr. Esodo, 13, 20-22], dall’altro, coprendolo con la sua ombra e impedendo di vederlo faccia a faccia [cfr. ibidem, 33, 20], lo vela e lo allontana dallo sguardo di quanti, a diverso titolo, lo contemplano» (Michele Giulio Masciarelli, Il mistero del volto. Piccola teologia del volto del Signore, Cinisello Balsamo, 2008, pagina 21). Questo volto è la stella polare del cammino della Chiesa amazzonica che ha scelto il volto come icona della sua figura e della forma della sua missione: una Chiesa di volti ricerca volti da incontrare, da scrutare, da consolare. La sua missione sarà un confronto da volto a volti.

Un volto con molte tristezze e con molti sorrisi. L’ecclesiologia comincia con l’antropologia e questa, se è biblicamente fondata, è sempre un’antropologia di volti. L’uomo è una creatura esemplata sul volto dei volti, che è il volto di Dio. C’è una serie di testi biblici dei primi tre capitoli della Genesi che ci collocano «nel contesto di quel “principio” biblico, in cui la verità rivelata sull’uomo come “immagine e somiglianza di Dio” costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana. È stimolante l’adozione del volto in senso ecclesiologico ed è chiesta dalla realtà ecclesiale in due sensi: anzitutto perché i suoi membri (uomini e donne) hanno un volto e sono individuati in un modo assai significativo proprio dal volto perché nel volto l’uomo appare, si manifesta» (cfr. Emmanuel Lévinas, L’epifania del volto, Gorle, 2010). Anche la Chiesa, che è un «chi» più e prima che un «che», ha anch’essa un volto, necessariamente somigliante al volto di Dio: sarà perciò filiale rispetto al volto del Padre, fraterno riguardo al volto del Figlio nostro fratello, necessario e amicale in riferimento allo Spirito, il Dio senza volto ma creatore di tutti i volti che i cristiani e la Chiesa possono avere. La Chiesa ha un volto umano e un volto divino, trinitario, certo nella misura in cui può averlo. Il primo aggettivo sottolinea anzitutto ciò che quella Chiesa è per le sue caratteristiche che già possiede geograficamente, ecologicamente, culturalmente, religiosamente e linguisticamente. Invece, il secondo aggettivo indica soprattutto ciò che anche la Chiesa in Amazzonia è chiamata a restituire a Cristo diffondendo e condividendo con altri singoli uomini e con altri popoli quanto ha ricevuto da altre intraprese missionarie.

Il «volto plurale» della Chiesa amazzonica

Una Chiesa plurale, non un monolite. L’unica Chiesa amazzonica è una realtà vivente che ha un «volto ricco di espressioni» (Instrumentum laboris, 107-109). Perciò il documento parla di un volto plurale in riferimento a questa Chiesa e inizia col dire che essa è una «Chiesa dal volto amazzonico e missionario» (115-117). Essa è plurale in sé (in quello che ha) e nelle sue aperture missionarie (in quello che vuole fare). «Il volto amazzonico della Chiesa trova la sua espressione nella pluralità dei suoi popoli, culture ed ecosistemi. Questa diversità richiede un’opzione per una Chiesa in uscita e missionaria, incarnata in tutte le sue attività, espressioni e linguaggi» (107). Perciò c’è una simmetria fra pluralità di soggetti, pluralità di fini missionari e pluralità di metodologie e di due mezzi che possiamo chiamare strategici: l’inculturazione e l’interculturalità, che «non si contrappongono, ma si completano a vicenda» (cfr. 108). Ma parlare di simmetria non implica che la pluralità dei soggetti sia la causa della pluralità dei fini né che questi siano, a loro volta, la causa della pluralità dei mezzi e delle metodologie: si può parlare solo di felici opportunità che permettono il loro incontro. Questo si coniuga col fatto che l’inculturazione sia necessaria al Vangelo e alla fede, che non possono esprimersi se non penetrando nella cultura del luogo. D’altra parte l’evangelizzazione operata nella prima ora cristiana, anzi da Gesù, primo autore del Vangelo, e dai primi discepoli missionari, prova che la necessità dell’inculturazione è inevitabile (cfr. 108). Alla necessità del porre in contesto il Vangelo segue la necessità dell’interculturalità, quando «i cristiani di una cultura vanno a incontrare persone di altre culture» (108).

Una Chiesa inculturata e interculturale. La Chiesa amazzonica, perciò, è chiamata a essere, come le altre Chiese, «una Chiesa inculturata», cioè bene incarnata nella sua cultura plurifacciale, una «Chiesa interculturale», ossia saggiamente rapportata ad altre culture alle quali si rivolge nell’incontro missionario (cfr. Instrumentum laboris, 108). Così pure, la Chiesa amazzonica trova nell’«opzione preferenziale dei poveri […] il criterio ermeneutico per analizzare le proposte per la costruzione della società […] e il criterio di autocomprensione della Chiesa», oltre a essere «una delle caratteristiche che contraddistingue la fisionomia della Chiesa latinoamericana e caraibica» (109).

L’intercultura è auspicata come cambiamento paradigmatico del pensare, del sentire e dell’agire, risorsa per sostenere nuove forme di relazione e di equilibri sociali. «La diversità culturale richiede un’incarnazione più reale per assumere modi di vivere e culture diversi» (113). «La costruzione di una Chiesa missionaria dal volto locale esprime l’avanzamento nella costruzione di una Chiesa inculturata, che sappia lavorare e articolarsi (come i fiumi dell’Amazzonia) con ciò che è culturalmente disponibile, in tutti i suoi campi di azione e presenza. “Essere Chiesa significa essere popolo di Dio” [Evangelii gaudium, 114], incarnato “nei popoli della terra” e nelle sue culture [cfr. ibidem, 115]» (Instrumentum laboris, 114).

È sorprendente che la tendenza all’interculturalità in Amazzonia, in paragone, per così dire sia stata precoce perché essa stessa è una macedonia di culture e ha esperimentato, pertanto, oltre che l’inculturazione, anche l’interculturalità dentro la sua stessa terra, allenata da sempre al confronto tra diversità culturali, implicando l’evangelizzazione in ambedue questi movimenti di natura culturale.

Chiesa amazzonica e i nomi dei suoi volti

Un volto missionario. La Chiesa di una Terra plurale chiede di evitare pastoralmente modelli unici o di «proporre una soluzione di valore universale» a problemi ecclesiali, senza tener conto dell’ambiente, dell’incidenza del luogo e della condizione del luogo: «una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature» (Evangelii gaudium, 40) non può essere applicata. Evidentemente, non s’intende dire che la dottrina (che va vista sempre nei suoi diversi gradi di autorevolezza e di conseguente obbligatorietà nell’accettazione) possa essere ridotta alla verità del momento storico che si vive e dell’ambiente in cui è espressa, che possa evocare la cosiddetta “morale della situazione” di cui si parlava negli anni ‘60 del Novecento. La trasmissione della fede nella terra amazzonica è stata e resta un’impresa di grazia che la Chiesa compie con fatica e sofferenza grandi: «La missione della Chiesa è annunciare il Vangelo di Gesù di Nazareth, il buon samaritano [cfr. Luca, 10, 25-36], che ha compassione per l’umanità ferita e abbandonata» (Instrumentum laboris, 115).

Questa Chiesa si pone, in tal modo, sulla scia dei grandi missionari della storia cristiana, dove, seguendo l’esempio di san Paolo che ha cercato «di adattarsi “il più possibile a tutti” (cfr. 1 Corinzi, 9, 19-23)», ha fatto «un grande sforzo per evangelizzare tutti i popoli nel corso della storia» (Instrumentum laboris, 115).

La metodologia della missione è, ieri come oggi, quella dell’inculturazione. «Da secoli la Chiesa cerca di condividere il Vangelo con i popoli amazzonici, molti dei quali sono membri della comunità ecclesiale» (116). È importante che la Chiesa amazzonica rinnovi, nel sinodo, la sua volontà di porre in contesto il Vangelo di Gesù e quanto esprime la sua persona: questo è il primo problema missionario, poiché la persona di Gesù è, da sempre a sempre, l’essenza del cristianesimo. Poi, certamente, compito missionario difficile ed esaltante è quello di declinare il Vangelo amazzonicamente, come si è già sforzata di fare: «Ha cercato di realizzare questo mandato missionario incarnando e traducendo il messaggio del Vangelo nelle diverse culture» (116). Questa è stata la storia missionaria dell’Amazzonia e ora ancora il problema è lo stesso: «La Chiesa ha percorso un lungo cammino che deve essere approfondito e aggiornato perché possa diventare una Chiesa dal volto indigeno e amazzonico» (116).

Un volto dinamico. Statico non è il volto, ma sempre in movimento, in evoluzione e a noi qui interessa dire in crescita. Oltre alla diversità dei volti per le età diverse, ci sono altre forme mutevoli del volto: quelli dell’innocente, del cattivo, del riflessivo, del superficiale. Così è delle comunità e anche della Chiesa che, a esempio, conosce la dinamicità missionaria: «Una Chiesa dal volto amazzonico nelle sue molteplici sfumature cerca di essere una Chiesa “in uscita” [cfr. Evangelii gaudium, 20-23], che si lascia alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva e sa discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli» (Instrumentum laboris, 110).

Il percorso che in questo documento pre-sinodale si racconta ha portato le persone e i popoli coinvolti a riconoscere utopie e progetti di vita verso i quali la dinamica dell’intercultura dovrebbe guidarci: da una identità umana comune alla «cittadinanza planetaria» (Edgard Morin) e, più ancora, da una nazione — a esempio l’Amazzonia — alla tenda planetaria, dove ci si augura che possa abitare l’unica famiglia umana nel segno della giustizia, dell’uguaglianza inclusiva e della pace (cfr. Michele Giulio Masciarelli, La tenda planetaria, Tau Edizioni, Todi, 2016). Oggi globalizzazione, mondializzazione, spostamenti di popoli, trasformazioni demografiche e socioculturali delle comunità umane mettono a confronto diversità di persone, culture, valori, modi e aspirazioni di vita. Si tratta di saper riconoscere e salvare sia la verità del “particulare” sia la verità che ha valore universale e sovratemporale. «L’universalità o cattolicità della Chiesa, quindi, è arricchita dalla “bellezza di questo volto pluriforme” dovuto alle diverse manifestazioni delle Chiese particolari e delle loro culture, formando una Chiesa poliedrica [cfr. Evangelii gaudium, 236]» (Instrumentum laboris, 115).

Un volto agonico. Il documento matriciale del prossimo sinodo non indulge nel presentare un volto della Chiesa amazzonica fatto solo di sorrisi: non evita perciò di parlare di «un volto di sfida dinanzi alle ingiustizie» (111-112). Cosicché la Chiesa amazzonica ha una “faccia dura” come quella di Gesù che sale a Gerusalemme (cfr. Luca, 9, 51): l’Amazzonia, infatti, vive in un contesto bello e conflittuale ed è aggredita dall’esterno.

«La Chiesa non è estranea a questa tensione. A volte c’è la tendenza a imporre una cultura estranea all’Amazzonia che ci impedisce di comprendere i suoi popoli e di apprezzare le loro cosmovisioni» (Instrumentum laboris, 111). Gli impulsi e le ispirazioni per la sua desiderata inculturazione, oltre che dalle conferenze episcopali latino-americane, originano dai pontefici del secondo Novecento e da Francesco e anche dall’emergere delle sue teologie locali. Volto agonico, tuttavia, non significa affatto volto triste, arcigno, minaccioso: fosse così, non sarebbe affatto il volto ecclesiale. Perciò il documento sinodale si premura di precisare che «la realtà delle chiese locali ha bisogno di una Chiesa partecipativa, […] di una Chiesa accogliente, […] di una Chiesa creativa, […] di una Chiesa armoniosa, che promuova i valori della pace, della misericordia e della comunione» (112). Sul volto della Chiesa amazzonica, come di ogni altra Chiesa, debbono potersi vedere gli echi severi della Passio Christi e i riflessi gaudiosi della Trasfigurazione, della Risurrezione e della Glorificazione di Gesù.

Un volto bello. Già Papa Francesco scriveva nella sua magna charta pastorale che la Chiesa mostra la bellezza del suo «volto pluriforme» (Evangelii gaudium, n. 116). Se è così, non è tollerabile che i poveri siano esclusi anche dalla bellezza: essi hanno diritto alla bellezza perché nella Chiesa non sono gli ultimi. L’Instrumentum laboris afferma, in modo descrittivo, che «il volto amazzonico è quello di una Chiesa con una chiara opzione per (e con) i poveri e per la cura del creato [e che] a partire dai poveri, e dall’atteggiamento di cura dei beni di Dio, si aprono nuovi cammini per la Chiesa locale che si allargano alla Chiesa universale» (109). Lottare per un mondo più giusto per i poveri è anche lottare per un mondo più bello nella convinzione motivante che la bellezza è una critica severa all’ingiustizia ed è una vera iniziazione alla giustizia: «La bellezza sembra richiederci di prestare attenzione alla vitalità o (nel caso degli oggetti) alla semivitalità del nostro mondo, e di dedicarci alla sua protezione» (Elaine Scarry, Sulla bellezza e sull’essere giusti, Il Saggiatore, Milano, 2001, pagina 85).

Il volto amazzonico della Chiesa ha i suoi colori: i colori accesi della gioia, della speranza, dell’allegria di un popolo plurale e giovane; i colori pastello della serietà, delle tristezze per i tanti dolori patiti, acri e senza nome. Sul suo volto plurale debbono essere rintracciabili i colori maturi dell’esodo affaticante, della missione che preoccupa: ma, in modo assolutamente necessario, su quel volto non debbono mancare i colori blu (l’indaco simbolo del Mistero) che sono i colori dell’innocenza natalizia di Cristo, della sua fierezza di evangelizzatore, della sua forza di Martire del Golgota, della sua vittoria pasquale sul peccato e la morte, della sua sessio alla destra del Padre, della sua larga elargizione di grazia a Pentecoste, infine della bella speranza con cui attende la sua splendida Parusia quando verrà a compiere il Giudizio, il suo ultimo atto di salvezza, e chiamerà, insieme alle Chiese sorelle, la Chiesa amazzonica alla Gloria. Il prossimo sinodo parlerà, in fondo, di come procurare e conservare per questa Chiesa la bellezza del suo volto. Per allora la tavolozza dovrà essere usata per intero, perché per riflesso non manchi al volto della Chiesa intera (la nostra limpida Madre) alcun riflesso del volto di Gesù, il più bello tra i figli degli uomini.

Fonte: L'osservatore Romano, articolo di Michele Giulio Masciarelli